18.4.12

Film Middle East Now di sabato

Vado con ordine.
Prima abbiamo studiato il ricco programma confrontandolo con i nostri impegni e abbiamo decidiso di andarci di domenica. Decidiamo anche di andare in macchina perché dopo il treno delle 23.07 il successivo è alle 00.35. Studiamo google map e la cartina di Firenze e decidiamo di tentare la sorte per un parcheggio in zona Porta Romana. Siamo fortunate, e come da programma per prima cosa andiamo a vedere le due mostre fotografiche, che si trovano una di fronte all'altra in Via Maggio, più o meno una parallela a Palazzo Pitti.























La prima è della fotografa iraniana Newsha Tavakolian.
Entro nella piccola galleria e mi colpiscono i suoi autoritratti. Penso che gli autoritratti, quando il fotografo riesce a comunicare una storia anche se non del tutto chiara, siano un tema molto affascinante. Anche lo sguardo in camera, e soprattutto se hai quello di Newsha Tavakolian, aggiunge fascino, attrazione, magnetismo, non so come chiamarlo, vorrei non usare queste parole vaghe ma non me ne vengono altre. Lo sguardo in camera crea quel contatto tra me e lei, e io la fisso a lungo per cercare di capire cosa mi vuole raccontare. Penso anche agli autoritratti di Francesca Woodman, e penso che anche lei come la Tavakolian era un'autodidatta e che come per la Woodman, nonostante le sue foto siano molto pensate e costruite, siano anche incredibilmente spontanee, e penso che sia proprio questo a dare alle foto sia della fotografa americana che di quella iraniana il maggior fascino. Il progetto della Tavakolian si chiama Listen ed è composto da più pezzi: un'installazione di più monitor in ciascuno dei quali appare e poi scompare una cantante iraniana che canta sullo sfondo di una tenda dai colori sgargianti, senza sonoro; le foto, dei primi piani, delle stesse cantanti immortalate mentre cantano tutte ad occhi chiusi; autoritratti della fotografa vestita sempre di nero e col foulard nero in testa, con un'espressione direi triste, su vari sfondi, come il mare, le strade etc; infine, queste stesse foto corredate di scritte in arabo che diventano copertine di cd. Sul sito della fotografa si può vedere tutto il progetto Listen. Newsha Tavakolian è partita dal suo sogno di bambina di diventare cantante e il fatto che le cantanti iraniane non possano esibirsi da sole ma sempre accompagnate da un uomo, per riflettere sulla condizione della donna in Iran.


Attraversando la strada c'è un'altra fotografa, totalmente diversa: Kate Brooks.
Lei è una fotoreporter e negli ultimi 10 anni, cioè da dopo l'11 settembre, ha seguito i vari conflitti del Medioriente: Afghanistan, Iran, Libano, le rivoluzioni arabe, Pakistan, Siria, etc. Anche queste foto sono stampate in grossi formati; e come cornice hanno una pennellata di gesso, credo (che mi piace, riprende i calcinacci delle rovine che si vedono in molte foto). Ad accoglierci, prima di entrare nella sala una foto di edifici in rovina a Beirut, e un corridoio pieno di uomini accovacciati di un centro di detenzione in Afghanistan. Entro. Penso che sia abbastanza raro sentir parlare di una donna fotoreporter nei paesi del Medioriente. Mi piacciono certi reportage per la loro capacità di arrivare all'umano e al giornaliero che difficilmente si percepiscono negli articoli di giornale, dove sono i dati, i fatti, quelli che contano. Ho letto qualcosa di Terzani e soprattutto Kapucinski (che ammiro tantissimo proprio per la sua capacità di raccontare i suoi incontri con la gente comune), e ho spesso pensato a quanti paesi avessero girato, con quante persone diverse erano entrate in contatto, e naturalmente alle situazioni di pericolo in cui si erano ritrovate, e ho pensato che a essere maschi, il rischio magari non diminuiva, ma poteva essere più semplice fare quel lavoro lì. Penso che scegliere di fare il reporter e fotoreporter di guerra (vero, non quello che rimane in albergo, o segue solo le forze armate dei più forti) ci voglia veramente un gran coraggio e mi chiedo cosa porti una persona a scegliere quella strada. Penso che come donna, di coraggio ce ne voglia ancora di più. Osservo le foto e mi chiedo anche se in esse ci sia uno sguardo di donna e mi rispondo che forse sì: forse è nel viso sopreso del bambino cha cammina davanti a un uomo morto in Iraq, o nel ritratto fatto nel bagno di una giornalista libanese su sedia rotelle che ha perso un braccio e una gamba in un bombardamento, e la cui protesi del braccio, staccata e appoggiata su un mobile in primo piano è corredata di unghie perfettamente curate e laccate e orologio di marca. Al centro dal soffitto sono appesi alcuni pensieri di Kate Brooks che si possono ritrovare in un suo libro di fotografie da poco pubblicato, In the Light of Darkness: A photographer's journey after 9/11. Uno dice:
Buttai il mio shalwar sporco di sangue e olio nella spazzatura e rimasi sotto la doccia per un tempo che mi sembrò infinito, cercando di lavar via dal mio corpo la giornata. Il giorno dopo ritrovai i pantaloni perfettamente ripiegati sul mio letto. La donna delle pulizie li aveva recuperati dalla spazzatura e aveva sfregato le macchie fino ad eliminarle, come se fossero state cicatrici della mia anima in quello che sembrava un taciuto rituale di guarigione.
Prossima tappa da programma è il Cinema Odeon in Piazza Strozzi dove speriamo di capire se ce la facciamo a vedere il film libanese Ok, Enough, Goodbye al Cinema Stensen e tornare in tempo al Cinema Odeon per il corto sempre libanese Blue line. Io e Tsaramaso siamo d'accordo che lo scopo della giornata a Firenze sia vedere più Libano possibile, e soprattutto non perdersi Blue line.
Gine ci segue rassegnata.
Al banco informazioni dentro il Cinema Odeon un addetto, iracheno (o iraniano, non ricordo) alla domanda quanto tempo ci vuole dal Cinema Stensen a qui mi risponde che dipende a che velocità vado, e mi dichiara quanti passi fa lui al minuto. Io gli dico che googlemap mi dice che ci voglioni 25 minuti circa, e lui mi chiede se googlemap prevedeva di inserire anche il dato passi al minuto. Mi dice anche che The Last Days of Winter in programma al Cinema Odeon alle 18.30 è un bellissimo documentario, e che gli altri documentari dello stesso regista già mostrati al Festival sono molto piaciuti. Gine preferirebbe vedere una commedia, invece di tutti questi disperati, quindi vota per Ok, Enough, Goodbye, ma io e Tsaramaso su Blue line siamo irremovibili.
Gine ci segue rassegnata.
Il rischio di perdere l'inizio di Blue line che oltrettutto è un corto se andiamo all'altro cinema per vedere Ok, Enough, Goodbye, è alto e quindi molto malvolentieri rinunciamo alla commedia libanese e rimaniamo in zona Palazzo Strozzi.

Nell'attesa, complice la Holga di Tsaramaso io prendo coraggio (quasi da fotoreporter) e rimetto un rullo b/n nella Diana e scatto anche qualche foto. Già sulla prima non sono sicura di aver tolto il tappo. Nell'attesa purtroppo entriamo anche in libreria, dove Tsaramaso si compra un graphic novel su Gerusalemme e io uno su Beirut. Perché il giuramento che non mi compro più libri fino a quando non ho letto almeno la maggior parte di quelli che ho in casa e che non ho ancora letto, non vale per i fumetti, dato che i fumetti che ho in casa li ho letti tutti.

Il cinema Odeon è proprio un bel cinema: in stile liberty, con comodissime poltrone gialle, tanto spazio per le gambe e il permesso di rientrare in sala con birra e ritz - la nostra cena. E, soprattutto per le proiezione serali, è tutto pieno con gente seduta anche per terra. Sono cose che fanno piacere.


18.15. Haneen di Ossama Bawardi. E' un corto di 18 minuti.
E' difficile scindere il film dall'attrice protagonista, quasi unica attrice del film dato che gli altri personaggi solo si intravedono. E difficile è scindere anche perché l'attrice protagonista, Suad Amiry, ce lo presenta il film.  Suad Amiry non passa certo inosservata. E' il prototipo della donna mediorientale, diciamo moderna: ben vestita, bella, molto curata soprattutto i capelli, espansiva. Suad Amiry ha una sessantina di anni ed è palestinese; vive a Ramallah che è in Cisgiordania e nella vita fa l'architetto. Ci racconta che la maggior parte delle cose che ha fatto le sono successe per caso, come recitare in Haneen -  un amico, il regista, cercava una donna anzianotta, ci dice con ironia, e ha pensato a me. Ride molto Suad Amiry, deve avere un'energia incredibile. Ha scritto anche un libro (più d'uno in realtà), anche questo scritto per caso, dice, che si chiama "Sharon e mia suocera" e che ha vinto il Premio Viareggio nel 2004 - se mia suocera non fosse venuta ad abitare con noi e non mi avesse fatto impazzire, dice, non l'avrei certo scritto. Suad Amiry è diventata il mio nuovo mito e alla faccia del mio giuramento mi comprerò subito il suo libro; innamoratevene pure voi qui mentre parla a una TED conference organizzata a Ramallah.
Il film Haneen percorre due giorni nella vita e nella casa di una signora rimasta sola che non approva la nuova numerazione delle strada. Ambe due le mattine alcuni operai vengono ad attaccare un nuovo numero civico sulla sua porta, e lei, dopo aver controllato la cassetta della posta per una lettera che non arriva mai, con l'aiuto di una sedia e un coltello testarda lo stacca. Quasi nessun dialogo, tanta musica, e immagini della casa e delle foto di famiglia, e del bambino della casa vicina che viene a rubarle le arance dall'albero in giardino.
Ci siamo chieste camminando verso la macchina il motivo per il quale la signora fa di tutto per staccare la nuova numerazione e nonostante non se ne veda una vecchia, abbiamo concluso per il timore che con la nuova numerazione non riceva la tanto agognata lettera. Di chi poi? Del marito? Del figlio? Probabile. Haneen è un cortometraggio molto curato in ogni dettaglio, la fotografia, la colonna sonora, il montaggio, la luce, e naturalmente la protagonista.


















A seguire c'è The last days of winter, un documentario iraniano di 55 minuti. Il regista, Merhdad Oskouei, ha seguito per una decina di giorni un gruppo di 7 ragazzini tra i 10 e 15 anni rinchiusi in un riformatorio di Tehran. I dieci giorni includono anche una gita al mare, che i ragazzini non avevano mai visto. L'argomento non è certo di quelli leggeri. I ragazzini sono tutti lì per furto, chi di cellulari, chi di pecore, chi lo ammette con vergogna e chi se ne vanta dichiarando di essere il più grande ladro della Persia. Vengono tutti da famiglie a loro volta di ladri e spesso con problemi di tossicodipendenza; i bambini stessi fuori di lì fanno uso di droghe anche se non viene mai specificato quale ma una volta si fa cenno all'oppio. Alcuni piangono raccontando la propria storia altri mostrano una saggezza spaventosa: un dodicenne afferma rassegnato che quando uscirà di lì sicuramente tornerà a fare uso di droghe, e chi pensa di sé il contrario, aggiunge, si sta prendendo in giro. Sono tutti legati alla propria famiglia, soprattutto ai fratelli - verso i genitori la maggior parte ha un atteggiamento forse di delusione, avrebbero voluto che fossero stati loro a fermarli, e non la polizia e poi il riformatorio. Pregano regolarmente e dichiaranoo che comunque vada sarà la volontà di dio.
Riguardo la foto dei ragazzini: quello davanti tutto impettito è quello che raccontava orgoglioso di essere il più grande ladro di Persia, o qualcosa del genere, e di aver rubato anche 500 pecore al giorno. Quello con la bambola parla con la bambola solo in curdo e le racconta cose che non racconta a nessun altro. Tutti i ragazzini hanno un bambolotto, ho pensato che probabilmente faceva parte del programma del riformatorio. Li guardo i ragazzini, e anche se non ricordo precisamente tutte le loro storie, in quei 55 minuti mi ci sono affezionata, come può succedere con i bambini. Nonostante tutto rimangono quello che sono, bambini.
Mehrdad Oskouei ha una quarantina d'anni e parla persiano. E' un uomo molto comunicativo, forse per quello, penso, è riuscito in così pochi giorni a far parlare i bambini del riformatorio alla sua telecamera. Ha un'aria gentile e serena, confortante, ed è riuscito secondo me a rappresentare una realtà così tremenda, con leggerezza, la leggerezza che è dei bambini. Lo dice lui, rispondendo a una delle tante domande del pubblico: i bambini rimangono bambini. La sezione del riformatorio che ospita i ragazzi dai 15 ai 18 anni, dice, è già tutta un'altra storia.
Sul NYT un articolo e intervista su Mehrdad Oskouei.


















20.30. Blue line, finalmente il film per cui io e Tsaramaso siamo venute. E' un altro cortometraggio di 20 minuti e racconta la storia di una mucca libanese che un bel giorno attraversa la linea blu, cioè il confine tra il Libano e il territorio (che sarebbe sempre Libano, se non ricordo male) controllato dall'esercito israeliano, innescando seri problemi diplomatici tra le forze dell'ONU indiane e i soldati israeliani.
Alain Sauma, il regista, è un uomo di poche parole - discreto in tutti i sensi, penso -  viene dalla pubblicità e si vede. Il film è prodotto interamente in Francia e anche girato lì, quindi penso che Alain Sauma che parla perfettamente francese (come del resto moltissimi libanesi) sia un libanese residente all'estero, di quelli che se ne sono andati (comprensibilmente) e che gli artisti invece rimasti di solito guardano con un certo disprezzo - facile andarsene, dicono, facile fare gli artisti in Francia, in USA... Invece no, controllo, e Alain Sauma abita a Beirut. Ecco, alla faccia dei pregiudizi.
Blue Line naturalmente è un film un po' surreale, anche se Sauma racconta che è una cosa che succede spesso, quella di animali che attraversano il confine e vengono purtroppo ammazzati. La storia di Blue Line è di Lynn Maalouf, giornalista e moglie di Sauma.
Non è per niente surreale, o forse lo è fin troppo, il film successivo - ma presentato insieme a Blue Line e che dato l'argomento facilmente monopolizza tutta la discussione prima e dopo i due film, a discapito quindi del discreto libanese, che comunque è di poche parole.
5 Broken Cameras è un lungometraggio firmato da due registi, uno palestinese Emad Burnat e uno israeliano Guy Davidi (a presentarlo c'è solo quest'ultimo), che tra le altre cose è stato selezionato per il Sundance Festival e ha vinto vari premi, tra cui un paio a un festival di Amsterdam. Le cinque telecamere rotte sono quelle di Emad Burnat, distrutte negli anni in cui riprende le manifestazioni della popolazione palestinese di un piccolo villaggio, Bil'in, che cerca di impedire l'insediamento di nuovi coloni israeliani e che sottrae campi di ulivi delle famiglie palestinesi. Le famiglie palestinesi inoltre protestano contro la costruzione di un'inferriata che li separa dai loro stessi campi. Emad Burnat, che non è un cameraman professionista, ma che sul campo lo diventa alla grande, riprende giorno dopo giorno le violenze e così assistiamo come in presa diretta a numerosi ferimenti anche gravi, tra cui anche di Burnat, e ad alcune morti. Alla fine l'inferriata viene demolita, e i manifestanti sembrano aver vinto; ma in realtà è in arrivo il bel muro di cemento.
Quello che differenzia 5 broken cameras da altri documentari sulla situazione palestinese nei territori occupati, è il taglio personale: la vicenda la seguiamo attraverso Emad Burnat e la sua famiglia; ed è stato proprio l'aspetto famigliare a interessare il regista Davidi.
La discussione dopo è molto delicata e i primi interventi sono polemici e contro l'occupazione israeliana. Tanto per essere chiari io sono totalmente di parte e Davidi per quanto abbia messo la sua firma su un film che mostra i sopprusi degli israeliani sui palestinesi e immagino lavori per una conciliazione, e ben vengano i Davidi, non mi stava simpatico e a un certo punto ha fatto un discorso sul non mettere Israele in un angolo perché peggiorava la situazione, e mi ha fatto ridere, perché se Israele si sente messo in un angolo, la striscia di Gaza cos'è? E' un professore dell'Università di Modena di sociologia dei processi culturali, Vittorio Iervese, che modera la discussione ed è bravissimo a riportare il discorso sui film, senza alzar la voce invita il filopalestine esagitato a tornare il giorno dopo quando ci sarà una tavola rotonda incentrata precisamente su questa questione e riesce ad estrapolare da uno spettatore arabo che parla prima in arabo, poi francese, e poi inglese la domanda da fare a Davidi, che poi è senza risposta: ci sono degli israeliani in sala e come commentano questo documentario? Anche Vittorio Iervase è un po' un mio nuovo mito.

















In conclusione, penso che mi sono proprio divertita a passare un pomeriggio e una serata tra fotografie e cinema del Medioriente, e conto l'anno prossimo di passarci più tempo. Tutto quello che ho visto mi è piaciuto, qualcosa di più qualcosa di meno: di solito preferisco la finzione anche per raccontare la realtà rispetto ai documentari, quindi i due corti mi sono piaciuti di più. Ho trovato molto poetico e delicato il documentario sui bambini iraniani di The last days of winter; mentre forse 5 Broken Cameras è quello che mi è piaciuto meno nonostante sia davvero ben fatto - spesso sul conflitto israeliano palestinese si vedono delle cose fatte veramente male ma che per la giusta causa vengono mostrati come bei documentari. Per le due mostre fotografiche vale ancora la mia inclinazione per la finzione, quindi più Tavakolian; ma anche Kate Brooks mi ha proprio incuriosito.

Alla fine, insomma: viva le donne!

8 comments:

m. said...

e viva la sintesi :)

sburk said...

Quindi non l'hai neanche letto?

Sì lo so avrei potuto dividerlo in più post, però c'ho messo le figure che lo divide in più parti.

Oh!

m. said...

come si chiama? lettura trasversale?
ecco.

eh!

sburk said...

no.
si chiama guardare solo le figure.

Michele said...

Boia dé che maratona. Anzi, che due martone, una per andaer a Firenze e una per scrivere! Obbrava!
(io ho letto tutto)

sbuuuuuuurk said...

:)
del resto anche i tuoi post non sono sintetici
e poi quando ci vuole ci vuole

ho cronometrato la lettura: senza andare sui link e leggendo con calma ci vogliono 15 minuti

cbp said...

sburk scrive sempre meglio secondo me.. o forse semplicemente si lascia andare sempre meglio.. letto e goduto. grazie!.. e il prossimo anno me viene con voi!

Anonymous said...

E' giusto scrivere post pachidermici in un blog. Per l'informazione schizofrenica ci sono tutti gli altri troiai alla moda. Alché bene, bravi!