23.10.19

Joker

Ho visto Joker.
Abbagliata. Anche se per fortuna non sono stata la sola. Incluso il mio compagno di visione: Ex-co. Lo cito: "Se avessi visto prima Joker e poi Tarantino, forse Tarantino mi sarebbe piaciuto".
Non mi resta che andare a vedere Tarantino.

Di "Joker" ha scritto, stroncandolo, il mio critico cinematografico preferito, Anthony Lane, che scrive su The New Yorker. Io l'ho tradotto (alla meglio) ma leggerlo in inglese è tutta un'altra cosa. Tradurre in questo caso è davvero tradire. Qui in inglese.


"Joker" di Todd Phillips non fa ridere.

Preceduto da nugoli di polemiche, nel ruolo di protagonista, Joaquin Phoenix ci invita ad assitere al suo malessere evolversi in incontrollabile violenza.

Di Anthony Lane, 27 settembre 2019 
 

All'inizio di "Joker", Arthur Fleck (Joaquin Pheonix), seduto davanti a uno specchio si infila le dita ai lati della bocca tirandole verso il basso e poi verso l'alto. E di nuovo verso il basso e poi verso l'alto. Da un largo sorriso passa alla smorfia. Intende ricordarci la maschera, comica e tragica, che portavano gli attori negli antichi drammi greci. Nelle succesive due ore, queste due anime si confonderanno fino al punto che non sarà più possibile distinguere la luce dall'oscurità.

Arthur è un pagliaccio e vorrebbe essere anche un comico, ma non fa per niente ridere. Il suo spettacolo di stand-up comedy fa così tanto fiasco che il filmato della scena viene mostrato in televisione. Solo così fa ridere. Abita a Gotham, che come tutti sanno è uguale a New York senza la pace e la poesia. L'anno, secondo me, è il 1981 per i film "Blow out" e "Zorro mezzo e mezzo" proiettati nei cinema. Ci vengono anche mostrate le proteste per la situazione dell'immondizia. Arthur lavora per un agenzia di clown e uno dei suoi compiti consiste nel stare in strada col naso rosso e una parrucca verde con in mano un cartello pubblicitario di un negozio. Quando alcuni ragazzi gli rubano il cartello Arthur li rincorre per i marciapiedi con le sue enormi e pesanti scarpe da pagliaccio. Un collega gli presta una pistola per la sua sicurezza, ma gli scivola a terra dal costume facendo un gran rumore mentre intrattiene dei bambini in un reparto pediatrico cantando "Se sei felice e tu lo sai batti le mani". Una canzoncina difficile per Arthur che dichiara di non essere stato felice neanche un minuto della sua fottuta vita.

Questo è quanto. "Joker" è un manifesto dell'infelicità. La regia è di Todd Phillips che l'ha anche scritto insieme a Scott Silver, e le cui precedenti opere, da "Road trip" (2000)  a "Old school" (2003) fino al trittico "Una notte da leoni" hanno divertito sul tema dell'idiozia immortale del maschio americano e dei suoi ostinati piani per evitare la maturità. Arthur Fleck, si potrebbe dire, rappresenta uno sviluppo in versione cattiva dello stessa tema. Abita ancora con la vecchia madre, Penny (Frances Conroy); il loro rapporto è stretto ma teso - lui le lava i capelli mentre lei fa il bagno -  e Arthur deve cercare persone con cui confidarsi altrove. Oltre a diventare amico, o a immaginare di essere diventato amico, di una madre single (Zazie Beets) che abita nel suo stesso palazzo, si vede regolarmente con una psicologa (Sharon Washington), nominata dai servizi sociali, che verifica il suo stato mentale e gli prescrive i farmaci. Da lei veniamo a conoscenza che Arthur è stato ricoverato in passato e che porta con se un biglietto che mostra alle persone che dovessero spaventarsi per il suo comportamento. C'è scritto: "Perdonate la mia risata: ho una malattia".

Ma quale malattia? Che sia la sindrome pseudobulbare, originariamente una malattia neurologica e che causa risate e pianti incontrollabili? Quando è sotto stress, Arthur scoppia in stridule risate che smettono all'improvviso come sono iniziate; altre volte piange e c'è un primo piano con la scia delle lacrime sul viso pitturato di bianco del pagliaccio. (Non avevo visto gocce tanto artistiche dal 1971, quando la tinta dei capelli di Dirk Bogart si sciolse insieme alla sua anima alla fine di "Morte a Venezia".) Tuttavia, il film non sembra interessarsi a cosa non vada in Arthur. Ci invita soltanto a guardare il suo malessere crescere fino a diventare fuori controllo e degenerare in violenza e ci propone un collegamento vago tra la crescita del malessere privato e la più ampia malattia sociale. "Sono soltanto io, o là fuori stanno tutti impazzendo?" si chiede. Indovina: tutt'e due.

"Joker" non sembra tanto avere un progetto quanto invece essere zeppo di orrendi episodi. Come con gli animali, arrivano a coppie. Per una deliziosa coincidenza, per esempio, due delle scene principali si svolgono nei bagni pubblici. Ci sono anche due lunge sequenze dentro la metropolitana: una nella quale Arthur usa la pistola per la prima volta, e un'altra in cui, inseguito dalla polizia, entra ed esce da un vagone, come a omaggiare "Il braccio violento della legge" (1971). Ancora più significativo è che ci sono due figure paterne. Una è Murray Franklin (Robert De Niro), il presentatore di un talk show televesivo, sotto la cui ala Arthur sogna di trovare protezione e accettazione; l'altro è Thomas Waynwe (Brett Cullen), un riccone che vorrebbe diventar sindaco di Gotham. (Ha un giovane figlio di nome Bruce. Vi ricorda qualcosa?) Trent'anni prima, Penny Fleck aveva lavora per lui, e Arthur spera di sfruttare questo lontano collegamento anche se Wayne non prova altro che disprezzo per i Fleck di questo mondo frammentato. "Quelli di noi che hanno costruito qualcosa nella propria vita guarderanno sempre quelli che non hanno cotruito niente", dichiara, "e vedranno solo dei pagliacci".

Accompagnato dalle polemiche, "Joker" discende su di noi. Le discussionio online sono cresciute, si sono inasprite e diventate assurde probabilmente per il fatto che quasi nessuno, tranne i critici e gli spettatori dei festival, ha veramente visto il film. (Le emozioni vanno al massimo quando la conoscenza dei fatti è al minimo.) In un angolo ci sono quelli che sperano nel capolavoro: un film che metterà in luce una nuova dinamica psicologica nel regno dei fumetti, ideale per i nostri tempi dilatati. Nell'angolo opposto ci sono quelli che temono che Phillips e Phoenix possano dare il La a tutte le persone sole, e soprattutto al maschio bianco pieno di problemi che si sente disperatamente non amato e che apprezzerebbe un bel tutorial su come cedere alla violenza.

La cosa su cui tutti sono d'accordo tra quelli che il film l'hanno visto è la bravura con cui Pheonix tiene tutto insieme. Avrà forse la faccia coperta dal cerone, ma è il suo corpo nell'insieme, arrotolato su se stesso come una molla di carne dalla quale il film rilascia l'energia. È così magro che quando si leva la maglia e si piega, la sua spina dorsale e le ossa delle spalle sporgono dalla pelle; sembra un angelo caduto, cone le ali tagliate o uno scheletro in attesa di finire nella tomba. Credo che Francis Bacon avrebbe fissato Arthur con occhi fanmelici.

Il problema è che anche Phillips è alla mercè del suo eroe, incapace di distogliere lo sguardo o la macchina da presa dal lurido spettacolo. La stessa cosa valeva, potreste obiettare per i precedenti Joker, Jack Nicholson in "Batman" (1989) e Heath Ledger in "The Dark Knight" (2008) le cui sembianze si erano sfatte insieme alla sua mente. Ma quelli erano ruoli da non protagonista, mentre Arthur qui è il mattatore. Non deve più essere solo parte dello scenario, è lo scenario, e la sua performance è così intensa che diventa estenuante guardarla. Prendetemi per intero, sembra volerci dire, e tutto è quasi troppo da sopportare. Ogni tanto, altri attori meno costruiti attraversano la scena: Bill Camp è un detective, per esempio, e Brian Tyree Henry un impiegato dell'ospedale, entrambi meravigliosamente esausti, sembrano visitatori dal Pianeta Normale. Lo ammetto, sono un sollievo.

Ecco come stanno le cose. "Joker" non è quel grande salto avanti o tuffo nel nostro inconscio collettivo, e non è neanche un capolavoro. È un prodotto. Tutto il vociare prima del lancio dimostrano che si tratta di un'abile provocazione e se gli andiamo dietro non parteciperemo ad alcun dibattito; offriamo invece i nostri servizi gratis alla divisione del marketing della Warner Bros. Quando Dalì e Buñuel hanno fatto "L'Age d'Or" (1930), volevano iniziare una rivolta e ci sono riusciti, ma "Joker" aspira a poco più di un centinaio di recensioni e una raffica di tweet. Ovviamente accompagnati da vendite di biglietti.

La prova di questo piano ardito è ovunque si guarda nel film di Phillips e tutto quello che se ne sente. Il Joker di Nicholson forse aveva ballato al suono di "Partyman" di Prince, ma Pheonix volteggia in cima a una ripida scalinata al suono di "Rock 'n' Roll Part 2", un successo di Gary Glitter. Il pezzo era molto utilizzato dalle squadre sportive, aizzava le folle alle partite del NFL e NHL, prima che Glitter fosse condannato per possesso di pornografia minorile e sette anni più tardi di aver abusato sessualmente dei minori in Vietnam. Da allora, comprensibilmente, la canzone è uscita dalle liste delle favorite. Ci credete che la decisione di riportarla alla ribalta per "Joker" sia in realtà una scelta studiata per creare offesa? Per favore. Si dà il caso che detesti questo film più di qualsiasi altro che abbia visto negli ultimi dieci anni, ma allo stesso tempo capisco che odiarlo in modo eccessivo vorrebbe dire cadere direttamente nella trappola, perché l'indignazione prova semplicemente che la nostra attenzione è stata attirata. Chiedete al Presedente degli Stati Uniti.

"Joker" ha un suo caratteristico stile politico. Per non rischiare di essere accusato di infiammare gli animi di destra il film tiene conto di questioni più vicine al pensiero di sinistra. Veniamo informati che tagli decisi all'assistenza pubblica presto costringeranno Arthur a interrompere la terapia e l'assunzioni di farmaci e l'appello del film per permettere agli oppressi il diritto di farsi sentire rieccheggia Frank Capra e Chaplin. In una strana scena, i ricconi di Gotham, in abiti da sera, assistono addirittura a una proiezione speciale di "Tempi moderni". Per quale motivo Phillips sceglie di inserire un film del 1936 se non per dichiarare di discenderne. Anche i riferimenti a Scorsese e alle sue indagini sulla paranoia urbana non sono meno sfacciati: "Taxi driver" (1976) e di nuovo "Re per una notte" (1982), nel qual De Niro interpreta un incosciente proto-Arthur, fissato su un presentatore di talk show.

"Joker" è al suo massimo nella creazione di caos e esplosioni, innescati dai crimini di Arthur. All'inizio del film, trucida tre WASP nella sudicia metropolitana, un'azione crudele che viene interpretata dai poveri come una chiamata alle armi contro i ricchi. A questo punto la città viene invasa da una folla di arrabbiati con la maschera di Joker e un desiderio di vendetta indiscriminata. Arthur sorride loro in modo indulgente, come un lupo ai suoi cuccioli, poi si arrampica sul cofano di una macchina fracassata per gloriarsi degli applausi. (Sembra che anche il film si stia congratulando con se stesso.) Non siamo molto lontani dall'apice esplosivo di "La furia umana" (1949), un altro film sensazionale della Warner Bros. con James Cagney nella parte di... indovinate un po'? Un assassino di nome Arthur con un rapporto morboso con la madre tormentato da problemi psichiatrici e che se la ride sulla strada per la perdizione. A quei tempi, il Times restò sgomento: "Lasciate che vi avvertiamo pacatamente: "La furia umana" è anche un film brutalmente malvagio e il suo impatto sui sentimenti delle persone instabili e impressionabili è incalcolabile". Queste preoccupazioni non ci sono per il film di Phillips; il suo impatto è calcolato attentamente al millimetro. Mi aspettavo che qualcosa di nome "Joker" mi avrebbe divertito. E io stupido.



1 comment:

Anonymous said...

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