26.11.11

Biennale d'Arte di Venezia - la cosa che mi è piaciuto di meno

Non ho dubbi (anche se della Biennale tutta avrò visto meno della metà): il padiglione italiano.
Il padiglione italiano era molto molto grande, e pienissimo di opere. Troppe.
E pienissimo di opere di tutti i tipi: video, fotografie, sculture, installazioni, dipinti, disegni. Troppi.
Ogni opera era di un artista diverso. Troppi.
Ogni artista era proposto da un intellettuale diverso. Troppi.
Troppi nomi e troppe opere.
Per capirci qualcosa in quel marasma potevi prendere delle cuffie a pagamento. Io mi sono rifiutata, sia per il pagamento che per il rischio di dover ascoltare la voce di Sgarbi.
Più di 200 opere, praticamente una mostra a se stante, senza nessun tipi di filo conduttore apparente, tranne che l'artista era proposto da un intelletuale diverso. Ed io che non avevo studiato prima di andare a Venezia, l'ho capito solo dopo la centesima accoppiata di nomi scritti su una scatola di legno ai piedi di un'opera. Forse ai piedi dell'opera di Chiara Caselli proposta da Niccolò Ammaniti.

Sono stata a lungo tempo davanti ai quadri di Riccardo Mannelli proposto da Ascanio Celestini. Ho provato a ricercarle in rete ma non le ho travate, e cercandole mi sembra di aver capito che Mannelli sia un fummettista. I suoi quadri mi hanno dato parecchio fastidio e cercavo di capire perché Celestini lo avvesse suggerito. Erano gruppi di uomini e donne, una decina, completamente nudi o con addosso qualche vestito di solito militare. Le posizioni in cui questi corpi erano rappresentati ricordava immagini sadomaso. Nonostante non succedesse niente in questi quadri, io li ho trovati molto violenti, e quindi fastidiosi.

C'era anche Wim Wenders con un'opera di Robert Bosisio. Un viso in trasparenza. O almeno credo che fosse quello, perché non sempre era facile capire a quale opera si riferissero la coppia di nomi, soprattutto quando il titolo dell'opera era 'Senza titolo 5'.



E naturalmente c'era l'artista pisano Giueseppe Bartalini, proposto da Antonio Moresco.

Purtroppo succedeva proprio così: nella gran confusione leggevo i nomi alla ricerca di qualcuno che conoscevo, un punto di riferimento, invece di guardare le opere stesse.
Mi rendo conto adesso infatti che le due opere che mi sono rimaste più impresse erano quelle più grosse, per le quali ho dovuto seguire una specie di percorso.
Il polittico pieno di teste degli Immortali della Battaglia delle Termopili, di Filippo Martinez (forse proposto da Vittorio Sgarbi in persona, aihaihiai).



E un'istallazione sulla mafia costituita da varie parti: un lungo e stretto corridoi con le immagini delle prime pagine dei giornali dal dopoguerra a oggi che raccontavano le stragi, le uccisioni, i processi legati alla magia; alla fine del corridoio una stanza con 10 cabine in cui si entrava, ognuna dentro era diversa e ti raccontava con delle registrazioni qualcosa che aveva a che fare con la mafia; in altri spazi c'erano ritratti dei mafiosi più famosi, alcuni a forma di sagome a grandezza naturale che rappresentavano quelli ancora a piede libero.

Insomma, con molta pazienza qualcosa saltava fuori dalla confusione, ma l'impressione maggiore era quella di una marea di opere buttate lì senza alcuna cura.

Il troppo stroppia.

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