19.4.06

Brian Jungen


Sono stata a Vancouver (la classica gita fuori porta di pasquetta) e sono andata a vedere la mostra di Brian Jungen, artista nato nel 1970 in British Columbia, Canada, in una famiglia in parte svizzera ed in parte aborigena, piuttosto conosciuto, che da un po’ lavora a Vancouver. I fili conduttori della sua opera sono l’utilizzo di materiale comune ed oggetti quotidiani, ed una denuncia contro consumismo, corruzione culturale, minoranze etniche, abuso della natura e globalizzazione. Alcuni esempi delle opere esposte: tre scheletri di balena sospesi al centro di altrettanto stanze, costruiti tagliando e riassemblando pezzi di sedie di plastica bianche. Un televisore acceso, che trasmetteva registrazioni riguardanti la violenza nelle carceri, completamente nascosto (si sentiva il suono e si intravedeva la luce avvicinandosi) all’interno di centinaia di vassoi da mensa arancioni gialli e rossi (che dovrebbero rappresentare il numero di aborigeni rinchiusi nelle prigioni canadesi). Dei pancali in pregiato legno di cedro, levigati. Un tepee alto svariati metri, ottenuto disassemblando una dozzina di divani in pelle nera, e ricucendola. La parte maggiore della mostra è occupata dai “Prototypes for New Understanding”, una collezione di forme antropomorfiche, tipo maschere tribali, ottenute partendo da scarpe da tennis, variamente aperte, tagliate e ricucite, con attaccati capelli umani. Le maschere sono molto belle, ed è interessante anche vederle da dietro, in pratica dall’interno della scarpa, e cercare di riconoscerne le varie parti. Appunto, passare dall'opera d'arte alla scarpa, e di nuovo all'opera. Ancora non ho una posizione chiara sull’utilizzo esclusivo delle Nike Air Jordan, che sicuramente sono straconosciute, e poi funzionano tantissimo per i colori (sono quelle bianche nere e rosse per capirci). Però, in fondo è sempre pubblicità per la Nike.
Comunque la mostra mi è piaciuta molto, e ve la consiglio.


4 comments:

bart said...

ci farò un salto quanto prima!!

bart said...

A parte gli scherzi, sembra molto interessante (le balene sono spettacolari).Penso che il tipo non si ponga più di tanto il problema di fare pubblicità alla nike, comunque effettivamente la fa. Purtroppo oramai la Nike (specie le jordan) è come la CocaCola o la la zuppa Campbell: ha assunto valenze iconico simboliche che vanno al di la di quello che può essere una ditta di abbigliamento. Ci chiediamo ancora se Wharol o Schifano facessero pubblicità?

P.S. Spike Lee fa decisamente pubblicità alla Nike
Piccola Galleria di Brian Jungen

bart said...

appunto:
In the 1988 TV campaign for Nike’s Air Jordan IIIs, Spike Lee played an awestruck basketball fan named Mars Blackmon. “Yo Money, it’s gotta be the shoes,” was Blackmon’s explanation for Michael Jordan’s unparalleled finesse. Forget hard work or good genes — the implication was that for a mere $150, anyone could fly.

Of course, anyone knew better. Still, the black, red and white shoes promised a taste of hope, fame, money, success, enlightenment. In their wake, footwear and advertising would forever change, with the profits from Nike’s Jordans ushering in shoe genealogy, guerilla marketing campaigns and all-out “lifestyling.” Ask any kicksologist (i.e., running shoe aficionado): AJs changed the world.

Or ask Brian Jungen.

“Air Jordans were the perfect product to address what I wanted to talk about,” the Vancouver-based artist says on the phone, reeling from a busy workweek. “I wanted to address commercialism and the fetishization of trainers and of Aboriginal art. I also wanted to address the division of labour, the production of goods and the relationship between the First and Third Worlds. There is a developing world within the First World on First Nations reserves.”

Spippolando su Google
un articolo sulla mostra di cui sopra

Anonymous said...

ke kurtura!