8.3.06

8 marzo festa delle donne/1


Allora festeggiamo!

Una donna ha vinto l'Orso d'Oro.
Con un film sugli stupri etnici e a proposito ho trovato interessante questo articolo apparso sull'ultimo numero di Alias del Manifesto:



EX JUGOSLAVIA PULIZIA E STUPRI ETNICI, TREDICI ANNI DOPO

L’impossibile lapide


di Mimmo Lombezzi *

Maritain ha detto: «Satana è puro. Cioé senza pietà e senza partecipazione. Noi abbiamo imparato a conoscere questa orribile, irriducibile purezza: essa esplodeva nel rapporto stretto e quasi sessuale del boia con la sua vittima».
Una gigantesca croce di cemento con incise le quattro «S» del nazionalismo Serbo:
Samo Sloga Serbina Spasava («solo l’unità salverà i Serbi»), presidia l’ingresso della città di Focha in Bosnia Orientale. A pochi metri di distanza la Drina scorre verde e immensa trascinando i suoi gorghi verso Vishegrad.
Accompagnamo in municipio quattro donne fra i 35 e i 40 anni. Si chiamano Bakira, Leana, Amela e Hassiba. Sono musulmane e sono venute apposta da Sarajevo. Prima della guerra abitavano in città. Quando si presentano all’ingresso, dicendo che hanno un appuntamento con il sindaco, l’usciere le accoglie con cortesia. La segretaria del sindaco invece, una bionda corpulenta con l’ accento di Belgrado, sembra infastidita e le dirotta verso una sala d’attesa: «il sindaco è in riunione... non so nulla del vostro appuntamento. Devo verificare». A volte basta uno sguardo per marcare le differenze etniche, le «diversità» reali o immaginate dalla guerra, e talora ci sono sguardi più definitivi di una frontiera. Dopo pochiminuti compare un uomo alto come un armadio, pallido e vestito di grigio. È il presidente del consiglio comunale, musulmano, venuto per intrattenere le donne in attesa che il sindaco si liberi. Si chiacchiera del più e delmeno tenendosi sulle generali. Si lamenta la crisi economica e il lavoro che manca. A un certo punto gli chiedo quanti criminali di guerra vivano ancora a Focha a piede libero. Risponde : «mezza città...».
Dopo un quarto d’ora appare il sindaco. Si chiama Kresmatovic. Appartiene alla nuova generazione di politici Serbo-Bosniaci. Non è un nazionalista. È cortese e pieno di buona volontà. Dice alle donne che devono considerarsi le benvenute a Focha e che lui farà di tutto per aiutarle. Si parla di una lapide di pietra, alta meno di un metro, che le donne vorrebbero affiggere sul muro di una palestra pubblica poco lontano dalmunicipio.
Bakira, la leader del gruppo, è la più aggressiva: con la sua frangetta bionda si direbbe pronta a sfidare il mondo intero. Amela è la più silenziosa. Sbatte continuamente le palpebre come se la luce del sole la ferisse. Chiede un bicchiere d’acqua e manda giù due pastiglie. Nella conversazione, compare più volte la parola «prozedura», (procedura). Si direbbe che il sindaco e il presidente del consiglio la usino come un amuleto.
Bakira racconta di avere ottenuto già da tre anni tutte le autorizzazionima che al primo tentativo di affiggere la targa una folla di nazionalisti Serbi le ha circondate, coperte di insulti. La polizia locale non ha alzato un dito e l’Eufor (la Forza Europea) non è intervenuta dicendo che il problema era di competenza della polizia locale. Le donne hanno dovuto fuggire. Il sindaco comprende il loro punto di vista ma spiega che ora c’è una nuova amministrazione e che per non aver problemi è meglio che la «prozedura» ricominci da zero. Amela ingoia un’altra pastiglia. Leana fissa il vuoto nel bicchiere. La discussione ricorda certe noiosissime beghe di quartiere che affliggono anche i nostri enti locali ma il tema - che nessuno nomina con il suo vero nome – è la pulizia etnica.
Dieci anni dopo la fine della guerra, la banalità del male si è come purificata: il male sembra sia evaporato lasciando solo la banalità, burocratica di una «prozedura»... Eppure le tracce visibili del male sono solo a un chilometro dal municipio. Poco prima dell’incontro Leana ci ha portato a vedere quella che era la sua casa. Una strada tutta curve si arrampica su una collina dove le case nuove si alternano a quelle bruciate. «Andiamo a vedere ma non so se ce la faccio – dice Leana - ho paura... In questa piazza, proprio qui, ho visto uccidere una ragazzina di 12 anni. L’ hanno accoltellata».
La strada continua a salire insieme al respiro che le resta in gola : «in quella traversa hanno ucciso Huso Omerovic e hanno gettato il corpo nella spazzatura ». Bakira cerca di calmarla. Le ripete «Respira! Calmati! Respira». Gli occhi della donna si riempiono di lacrime. Indica fuori dal finestrino e parla come in trance. È il passato che parla attraverso di lei: «in quella casa, hanno bruciato una coppia. Quando le fiamme sono arrivate al tetto la donna ha cercato di fuggire dalla finestra e le hanno sparato. Dell’uomo è stato trovato metà corpo».
La strada si avvinghia alla collina come un serpente e ogni curva apre un nuovo girone di ricordi. «Questa è la casa di Slavko P....». Appare una villetta a due piani con le pareti imbiancate da poco. L’auto rallenta, Bakira abbassa il finestrino e scatta diverse foto. «Marinko abita ancora qui...». Per alcuni istanti il silenzio è assoluto come se il passato avesse aspirato tutta l’aria. Si sentono solo gli scatti della macchina fotografica. «Fotografiamo questa casa - dice Bakira - perché vogliamo dimostrare che quel criminale di un cetnico che l’ha violentata vive ancora qui e vogliamo portarlo in tribunale». Leana tace e ingoia pillole poi tutto di un fiato: «abita ancora qui, nella sua casa , nello stesso posto...» . Duecento metri più in alto l’auto si ferma davanti a quella che era la casa di Leana e oggi è uno scheletro bruciato assediato dalla gramigna. Leana esce dall’auto. Sale la scala che portava al primo piano dove l’erba si aggrappa ai detriti. Bakira l’accompagna. Su quello che era il balcone la sua figura oscilla per un attimo nel vuoto. In basso la città rinvia un rumore attutito. «Quando sono arrivati ero qui sul terrazzo - racconta - da quella parte, dal basso delle raffiche di mitra hanno colpito le pareti della casa. Ho cercato di arretrare perché dietro di me c’erano i bambini Jasmin ed Emina. Ho preso in braccio il piccolo Jasmin per proteggerlo, perché non venisse massacrato e loro mi hanno presa. La maggior parte veniva da Belgrado, mi hanno spinto in una stanza....». Leana appoggia le braccia e la testa alla parete bruciata. Il pianto diventa dirotto. Sopra di lei c’è solo il cielo azzurro e il comignolo amputato dal fuoco. «Il primo che mi ha stuprata veniva dalla Serbia e in Serbia aveva un figlio di 5 anni ....ed è venuto qui in Bosnia per violentarmi». Leana non dice che i suoi figli erano presenti allo stupro ma continua a ripetere che l’uomo, il primo del branco, «aveva un figlio di cinque anni a Belgrado....ed è venuto qui, a violentarmi».
Mezz’ora dopo, in municipio, Leana tace a lungo. Il sindaco sembra sincero nel venire incontro alle richieste delle donne, ma si direbbe che si renda conto solo in parte di quello che hanno vissuto, di ciò che è avvenuto nella sua città a pochi metri dal suo ufficio. Verrebbe da pensare che durante la guerra abbia vissuto all’estero o nella Serbia anestetizzata dalla tv di Milosevic. Il sindaco insiste sul fatto che l’iniziativa delle donne non debba avere nessun carattere politico, che debba implicare nessun giudizio su una delle «parti in causa »... «Cerchi di capire – sbotta alla fine Leana - non è facile per noi affrontare la realtà e tornare qui a Focha 13 anni dopo, quando tutti i dettagli ci ricordano tutto quel che successo. Il sindaco che l’ha preceduta ci ha promesso di aiutarci e non ha fatto nulla. È uno scandalo ...basta! Non ce la faccio. Non posso più parlare!».
A quel punto Hassiba, la più giovane, prende la parola: «sa quanti anni avevo io quando mi hanno presa e violentata? Quindici anni! Avevo solo quindici anni e mi hanno tenuta al Partizan per quattro mesi».
Il Partizan è un centro sportivo che dista solo duecento metri dall’ufficio del sindaco e a dieci metri dalla stazione di polizia. I vetri di due finestre sono rotti. Andiamo a vederlo dopo l’incontro con il sindaco. Camminiamo non più di 10minuti. Giriamo sul retro, la porta della palestra è chiusa. Dalle finestre si intravedono dei pungiball. Sul muro una placca recente dice «Mladen Svjet» (mondo giovane) alludendo forse a qualche associazione sportiva. Davanti alla palestra si apre una spianata coperta di gramigna che domina la città. Stavolta è Amela che prende la parola e prima di riuscirci balbetta tre volte. «Qui dentro ci torturavano e violentavano tutto il tempo. Alcune erano ancora delle ragazzine ». Hassiba è rimasta in auto, non è riuscita a scendere. «Arrivavano completamente ubriachi dal fronte – continua Amela - gruppi di soldati sbronzi che venivano apposta per sfogarsi su di noi. Qui c’erano donne anziane bambine...Era una vera tortura. Sanguinavo tutto il tempo ».
Amela oggi ha un’età indefinibile. Ha un’eruzione cutanea intorno alla bocca e vive di pastiglie. Tempo fa ha cercato di suicidarsi bevendo dell’acido. «Questo - dice Leana - è il posto in cui volevamo affiggere una targa che ricordasse quello che abbiamo subito. È una piccola targa di pietra. Questo è il posto peggiore del mondo. Il posto dove il maggior numero di donne venivano portate e il peggior lager dove venivano violentate,ma la cosa piu triste è che è a due passi dalla stazione di polizia.Mi hanno chiusa qui per quattro mesi ed ero incinta di sei ed è stato un mio vicino, un poliziotto, che mi ha portata qui per essere violentata. Queste cose erano pianificate in modo da distruggerci completamente da un punto di vista fisico ementale».
Sul balcone un branco di poliziotti lancia occhiate sospettose al gruppetto che passa tornando verso il municipio. Le donne abbassano lo sguardo.

* la storia fa parte di quattro reportages sulla guerra in Jugoslavia dal titolo Srebrenica la vergogna d’Europa realizzati per Mt Channel

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