27.4.12

Ellen Page e Mia Wasikowska

Certe volte mi fisso sugli attori, e guardo tutti (più o meno) i film che hanno fatto.

Exco si è guardato tutti (forse gli mancano gli ultimi) i film di Woody Allen, e anche in ordine di uscita - lui sì che è un vero capricorno. Ma oltre a questo non mi viene in mente altro che abbia fatto con questa capricornicità.

Per esempio mi ero fissata su Ryan Goslin, così ho visto Le idi di marzo, Drive, Crazy stupid love, Blue valentine, All good things, Half nelson.
Non li guardo proprio tutti i film, guardo quelli che potrebbero piacermi, o almeno divertirmi.
Non mi chiedo più di tanto perché mi fisso su certi attori. Forse perché li trovo un po' diversi dai soliti, anche se certe volte penso che mi ci fisso perché sono indecisa se mi piacciono molto o se proprio non li sopporto: tipo Ryan Goslin.

Questa cosa vale anche per Ellen Page, che ho visto per la prima volta in Inception. Mi ci sono fissata e allora ho visto Juno, e poi Whip it. L'altra sera mi sono guardata Hard Candy. E' la storia di un incontro, soprattutto scontro, tra una ragazzina di 14 anni, particolarmente matura e sveglia per la sua età (realisticamente veramente troppo) e un trentenne fotografo forse pedofilo. Tutto si svolge a casa di lui, una casa da fotografo, con le pareti gialle, rosa e arancioni e le foto delle modelle appese ordinatamente. Il film è pieno di primissimi piani di Jeff e Hayley sullo sfondo delle pareti colorate. E' claustrofobico come tutti i film che si svolgono in un singolo interno. E' molto dialogo, poco naturale. Le battute di Hayley sono sempre perfette, ironiche, intelligenti e citazionistiche. La colonna sonora, tranne per qualche cd di musica elettronica che viene messo nello stereo, è un rumore fisso continuo, fastidioso.

Certe volte scrivo dei post per capire se un film mi è piaciuto o meno.
Certe volte mentre scrivo un post su un film che non so se mi sia piaciuto o meno, e capisco che non mi è piaciuto, cancello il post, perché scrivere di cose che non mi sono piaciute non è facile. Finisce che il post non mi piace e allora non lo pubblico.

Stavo per cancellare questo post.


Hard Candy è fastidioso. Forse questo ne era l'intento. E' fastidioso il tema, è fastidiosa Hayley, è fastidiosa la colonna sonora ed è fastidiosa la perfettina banale fotografia. Oltrettutto alla fine del film non è neanche chiaro cosa Jeff, interpretato da Patrick Wilson (credo fratello di Owen Wilson), abbia fatto, e chi fosse la donna scomparsa, pare uccisa, in una fotografia nascosta in cassaforte - spero fosse la mamma di Hayley, così almeno la storia avrebbe un senso. Il risultato è che Jeff, il forse pedofilo, è il pezzo meglio del film, e che Ellen Page forse non la sopporto proprio.



Continuando con le attrici, un'altra su cui mi sono fissata è Mia Wasikowska. Ne scrivo solo nella speranza di imparare il suo cognome, e non per l'indecisione tra mi piace molto e proprio non la sopporto: mi piace. E ne scrivo per risollevare anche questo post - altrimenti avrei dovuto non pubblicarlo. Lei l'ho vista in I ragazzi stanno bene, Restless e ieri in Jane Eyre. Jane Eyre è una di quelle storie che se hai avuto un minimo di educazione anglossassone, anche se non hai letto il libro, la conosci, non solo la conosci è proprio dentro di te. Immagino soprattutto se sei femmina. Jane Eyre è un romanzo, di quelli che si chiamano di formazione, di Charlotte Bronte e appartiene al romanticismo inglese, immagino. Lei orfana e maltrattata alla fine è amata da un nobile che all'inizio sembra un po' scontroso ma sotto sotto è una gran bella persona che infatti la chiede in moglie. Purtroppo sull'altare viene fuori che il bel scontroso sotto sotto una gran bella persona è già sposato con la pazza incendiaria che vive seclusa nella torre del palazzo.Un matrimonio ovviamente voluto dal padre di lui, il bel scontroso neanche la conosceva la pazza prima del giorno delle nozze, e avrebbe potuto rinchiuderla in un manicomio, ma magnanimo la tiene, nascosta, in casa. Jane Eyre alla notizia impazzisce, è britannicamente moralmente tutta d'un pezzo, e scappa. Finisce bene (più o meno), lui è il principe azzurro del resto.
Jane Eyre nonostante il mio riassunto è un bel romanzo, oltre alla vicenda romantica ovviamente c'è dell'altro - non è infatti nella colonna Harmony; c'è la critica alla società perbenista inglese, c'è il femminismo. E nonostante il mio riassunto col quale cerco di prendere le distanze da questo imbarazzante romanticismo, io e Jane siamo cresciute insieme - il libro era blu, piccolo, con la copertina rigida e le pagine fini e un bel giorno mia madre me lo dette da leggere.
Jane Eyre è stato presentato l'anno scorso al Festival di Venezia e nonostante il rischio di sfrenato romanticismo e lacrime ogni 5 minuti (anche Zeffirelli ne ha fatto una versione, probabilmente strappalacrime, con Charlotte Gainsbourg - che poi si è dovuta punire recitando in continuazione per Lars von Trier), è sempre, ma proprio sempre, molto equilibrato. Merito immagino del regista, Cary Joji Fukunaga, di cui non ho mai sentito parlare. Potre fissarmici.  Merito secondo me è anche degli attori, che oltre a Mia Wasikowska, sono Judi Dench e Michael Fassbender. Anche su quest'ultimo potrei fissarmi, ma l'altra sera ho cominciato a guardare Hunger sulla storia di Bobby Sands, il militante irlandese che muore in carcere a seguito di uno sciopero della fame, e dopo dieci minuti ho smesso perché mi faceva venire un ansia insopportabile. Merito di una fotografia molto studiata, ma non banale e ruffiana come quella di Hard Candy. Jane Eyre è la campagna inglese a primavera, i boschi con la nebbia, la brughiera quando diluvia, i giardini curati, i castelli gotici, le candele di notte, i costumi sobri ottocenteschi e trecce che incorniciano il viso. Merito anche della colonna sonora, di Dario Marianelli che è pisano. Poi forse bisogna avere qualche gene anglossassone per amarlo, non saprei.

Questo post potrebbe intitolarsi come parlare di due film e allo stesso tempo parlare anche di molte altre cose. Ed è lungo perché un anonimo ha commentato che "E' giusto scrivere post pachidermici in un blog. Per l'informazione schizofrenica ci sono tutti gli altri troiai alla moda" e allora viva la pachidermia!



24.4.12

座頭市


Zatoichi è  Takeshi Kitano.
E se lo conoscim Takeshi Kitano, lo sai.
Zatoichi è la storia di un combattente cieco.
(Sembra un samurai ma non credo lo sia - e con i giapponesi bisogna essere precisi, loro lo sono.)
Zatoichi viaggia per le campagne in difesa degli sfruttati.
(Non so in che periodo siamo, ma non ai giorni nostri - leggo nel periodo feudale, ma non saprei dire a cosa corrisponde. Al nostro? Boh.)
(Il giappone del resto per me è un mistero, in tutti i sensi.)
(Mi riprometto prima o poi di leggere Harukami per capirne di più)
(Per ora mi limito a mangiare sushi)
Zatoichi è tutto combattimenti di spade e spruzzi di sangue.
Zatoichi non fa paura e fa anche ridere.
Il finale è notevole e totalmente inaspettato: io e effeci ci siamo chieste se il tip tap derivasse da danze tradizionali giapponesi, e se le danze tradizionali giapponesi avessere influenze africane.

19.4.12

Sacco e Vanzetti


Giuliano Montaldo c'ha fatto un bel film.
Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla ne hanno dato una bella interpretazione.
Ennio Morricone ci ha composto una bella colonna sonora
Joan Baez ne ha cantato le gesta.
Ben Shahn, pittore e fotografo americano di origine russa appartenente alla corrente del realismo sociale, e vissuto proprio negli anni del processo a Sacco e Vanzetti, dipinse vari quadri, murales, e stampe (come quella qui sotto con anche il testo del discorso che fa Vanzetti; il dipinto invece era nel librone) per raccontare l'assurda vicenda.
Non credo abbia lavorato al film, però.

18.4.12

Film Middle East Now di sabato

Vado con ordine.
Prima abbiamo studiato il ricco programma confrontandolo con i nostri impegni e abbiamo decidiso di andarci di domenica. Decidiamo anche di andare in macchina perché dopo il treno delle 23.07 il successivo è alle 00.35. Studiamo google map e la cartina di Firenze e decidiamo di tentare la sorte per un parcheggio in zona Porta Romana. Siamo fortunate, e come da programma per prima cosa andiamo a vedere le due mostre fotografiche, che si trovano una di fronte all'altra in Via Maggio, più o meno una parallela a Palazzo Pitti.























La prima è della fotografa iraniana Newsha Tavakolian.
Entro nella piccola galleria e mi colpiscono i suoi autoritratti. Penso che gli autoritratti, quando il fotografo riesce a comunicare una storia anche se non del tutto chiara, siano un tema molto affascinante. Anche lo sguardo in camera, e soprattutto se hai quello di Newsha Tavakolian, aggiunge fascino, attrazione, magnetismo, non so come chiamarlo, vorrei non usare queste parole vaghe ma non me ne vengono altre. Lo sguardo in camera crea quel contatto tra me e lei, e io la fisso a lungo per cercare di capire cosa mi vuole raccontare. Penso anche agli autoritratti di Francesca Woodman, e penso che anche lei come la Tavakolian era un'autodidatta e che come per la Woodman, nonostante le sue foto siano molto pensate e costruite, siano anche incredibilmente spontanee, e penso che sia proprio questo a dare alle foto sia della fotografa americana che di quella iraniana il maggior fascino. Il progetto della Tavakolian si chiama Listen ed è composto da più pezzi: un'installazione di più monitor in ciascuno dei quali appare e poi scompare una cantante iraniana che canta sullo sfondo di una tenda dai colori sgargianti, senza sonoro; le foto, dei primi piani, delle stesse cantanti immortalate mentre cantano tutte ad occhi chiusi; autoritratti della fotografa vestita sempre di nero e col foulard nero in testa, con un'espressione direi triste, su vari sfondi, come il mare, le strade etc; infine, queste stesse foto corredate di scritte in arabo che diventano copertine di cd. Sul sito della fotografa si può vedere tutto il progetto Listen. Newsha Tavakolian è partita dal suo sogno di bambina di diventare cantante e il fatto che le cantanti iraniane non possano esibirsi da sole ma sempre accompagnate da un uomo, per riflettere sulla condizione della donna in Iran.


Attraversando la strada c'è un'altra fotografa, totalmente diversa: Kate Brooks.
Lei è una fotoreporter e negli ultimi 10 anni, cioè da dopo l'11 settembre, ha seguito i vari conflitti del Medioriente: Afghanistan, Iran, Libano, le rivoluzioni arabe, Pakistan, Siria, etc. Anche queste foto sono stampate in grossi formati; e come cornice hanno una pennellata di gesso, credo (che mi piace, riprende i calcinacci delle rovine che si vedono in molte foto). Ad accoglierci, prima di entrare nella sala una foto di edifici in rovina a Beirut, e un corridoio pieno di uomini accovacciati di un centro di detenzione in Afghanistan. Entro. Penso che sia abbastanza raro sentir parlare di una donna fotoreporter nei paesi del Medioriente. Mi piacciono certi reportage per la loro capacità di arrivare all'umano e al giornaliero che difficilmente si percepiscono negli articoli di giornale, dove sono i dati, i fatti, quelli che contano. Ho letto qualcosa di Terzani e soprattutto Kapucinski (che ammiro tantissimo proprio per la sua capacità di raccontare i suoi incontri con la gente comune), e ho spesso pensato a quanti paesi avessero girato, con quante persone diverse erano entrate in contatto, e naturalmente alle situazioni di pericolo in cui si erano ritrovate, e ho pensato che a essere maschi, il rischio magari non diminuiva, ma poteva essere più semplice fare quel lavoro lì. Penso che scegliere di fare il reporter e fotoreporter di guerra (vero, non quello che rimane in albergo, o segue solo le forze armate dei più forti) ci voglia veramente un gran coraggio e mi chiedo cosa porti una persona a scegliere quella strada. Penso che come donna, di coraggio ce ne voglia ancora di più. Osservo le foto e mi chiedo anche se in esse ci sia uno sguardo di donna e mi rispondo che forse sì: forse è nel viso sopreso del bambino cha cammina davanti a un uomo morto in Iraq, o nel ritratto fatto nel bagno di una giornalista libanese su sedia rotelle che ha perso un braccio e una gamba in un bombardamento, e la cui protesi del braccio, staccata e appoggiata su un mobile in primo piano è corredata di unghie perfettamente curate e laccate e orologio di marca. Al centro dal soffitto sono appesi alcuni pensieri di Kate Brooks che si possono ritrovare in un suo libro di fotografie da poco pubblicato, In the Light of Darkness: A photographer's journey after 9/11. Uno dice:
Buttai il mio shalwar sporco di sangue e olio nella spazzatura e rimasi sotto la doccia per un tempo che mi sembrò infinito, cercando di lavar via dal mio corpo la giornata. Il giorno dopo ritrovai i pantaloni perfettamente ripiegati sul mio letto. La donna delle pulizie li aveva recuperati dalla spazzatura e aveva sfregato le macchie fino ad eliminarle, come se fossero state cicatrici della mia anima in quello che sembrava un taciuto rituale di guarigione.
Prossima tappa da programma è il Cinema Odeon in Piazza Strozzi dove speriamo di capire se ce la facciamo a vedere il film libanese Ok, Enough, Goodbye al Cinema Stensen e tornare in tempo al Cinema Odeon per il corto sempre libanese Blue line. Io e Tsaramaso siamo d'accordo che lo scopo della giornata a Firenze sia vedere più Libano possibile, e soprattutto non perdersi Blue line.
Gine ci segue rassegnata.
Al banco informazioni dentro il Cinema Odeon un addetto, iracheno (o iraniano, non ricordo) alla domanda quanto tempo ci vuole dal Cinema Stensen a qui mi risponde che dipende a che velocità vado, e mi dichiara quanti passi fa lui al minuto. Io gli dico che googlemap mi dice che ci voglioni 25 minuti circa, e lui mi chiede se googlemap prevedeva di inserire anche il dato passi al minuto. Mi dice anche che The Last Days of Winter in programma al Cinema Odeon alle 18.30 è un bellissimo documentario, e che gli altri documentari dello stesso regista già mostrati al Festival sono molto piaciuti. Gine preferirebbe vedere una commedia, invece di tutti questi disperati, quindi vota per Ok, Enough, Goodbye, ma io e Tsaramaso su Blue line siamo irremovibili.
Gine ci segue rassegnata.
Il rischio di perdere l'inizio di Blue line che oltrettutto è un corto se andiamo all'altro cinema per vedere Ok, Enough, Goodbye, è alto e quindi molto malvolentieri rinunciamo alla commedia libanese e rimaniamo in zona Palazzo Strozzi.

Nell'attesa, complice la Holga di Tsaramaso io prendo coraggio (quasi da fotoreporter) e rimetto un rullo b/n nella Diana e scatto anche qualche foto. Già sulla prima non sono sicura di aver tolto il tappo. Nell'attesa purtroppo entriamo anche in libreria, dove Tsaramaso si compra un graphic novel su Gerusalemme e io uno su Beirut. Perché il giuramento che non mi compro più libri fino a quando non ho letto almeno la maggior parte di quelli che ho in casa e che non ho ancora letto, non vale per i fumetti, dato che i fumetti che ho in casa li ho letti tutti.

Il cinema Odeon è proprio un bel cinema: in stile liberty, con comodissime poltrone gialle, tanto spazio per le gambe e il permesso di rientrare in sala con birra e ritz - la nostra cena. E, soprattutto per le proiezione serali, è tutto pieno con gente seduta anche per terra. Sono cose che fanno piacere.


18.15. Haneen di Ossama Bawardi. E' un corto di 18 minuti.
E' difficile scindere il film dall'attrice protagonista, quasi unica attrice del film dato che gli altri personaggi solo si intravedono. E difficile è scindere anche perché l'attrice protagonista, Suad Amiry, ce lo presenta il film.  Suad Amiry non passa certo inosservata. E' il prototipo della donna mediorientale, diciamo moderna: ben vestita, bella, molto curata soprattutto i capelli, espansiva. Suad Amiry ha una sessantina di anni ed è palestinese; vive a Ramallah che è in Cisgiordania e nella vita fa l'architetto. Ci racconta che la maggior parte delle cose che ha fatto le sono successe per caso, come recitare in Haneen -  un amico, il regista, cercava una donna anzianotta, ci dice con ironia, e ha pensato a me. Ride molto Suad Amiry, deve avere un'energia incredibile. Ha scritto anche un libro (più d'uno in realtà), anche questo scritto per caso, dice, che si chiama "Sharon e mia suocera" e che ha vinto il Premio Viareggio nel 2004 - se mia suocera non fosse venuta ad abitare con noi e non mi avesse fatto impazzire, dice, non l'avrei certo scritto. Suad Amiry è diventata il mio nuovo mito e alla faccia del mio giuramento mi comprerò subito il suo libro; innamoratevene pure voi qui mentre parla a una TED conference organizzata a Ramallah.
Il film Haneen percorre due giorni nella vita e nella casa di una signora rimasta sola che non approva la nuova numerazione delle strada. Ambe due le mattine alcuni operai vengono ad attaccare un nuovo numero civico sulla sua porta, e lei, dopo aver controllato la cassetta della posta per una lettera che non arriva mai, con l'aiuto di una sedia e un coltello testarda lo stacca. Quasi nessun dialogo, tanta musica, e immagini della casa e delle foto di famiglia, e del bambino della casa vicina che viene a rubarle le arance dall'albero in giardino.
Ci siamo chieste camminando verso la macchina il motivo per il quale la signora fa di tutto per staccare la nuova numerazione e nonostante non se ne veda una vecchia, abbiamo concluso per il timore che con la nuova numerazione non riceva la tanto agognata lettera. Di chi poi? Del marito? Del figlio? Probabile. Haneen è un cortometraggio molto curato in ogni dettaglio, la fotografia, la colonna sonora, il montaggio, la luce, e naturalmente la protagonista.


















A seguire c'è The last days of winter, un documentario iraniano di 55 minuti. Il regista, Merhdad Oskouei, ha seguito per una decina di giorni un gruppo di 7 ragazzini tra i 10 e 15 anni rinchiusi in un riformatorio di Tehran. I dieci giorni includono anche una gita al mare, che i ragazzini non avevano mai visto. L'argomento non è certo di quelli leggeri. I ragazzini sono tutti lì per furto, chi di cellulari, chi di pecore, chi lo ammette con vergogna e chi se ne vanta dichiarando di essere il più grande ladro della Persia. Vengono tutti da famiglie a loro volta di ladri e spesso con problemi di tossicodipendenza; i bambini stessi fuori di lì fanno uso di droghe anche se non viene mai specificato quale ma una volta si fa cenno all'oppio. Alcuni piangono raccontando la propria storia altri mostrano una saggezza spaventosa: un dodicenne afferma rassegnato che quando uscirà di lì sicuramente tornerà a fare uso di droghe, e chi pensa di sé il contrario, aggiunge, si sta prendendo in giro. Sono tutti legati alla propria famiglia, soprattutto ai fratelli - verso i genitori la maggior parte ha un atteggiamento forse di delusione, avrebbero voluto che fossero stati loro a fermarli, e non la polizia e poi il riformatorio. Pregano regolarmente e dichiaranoo che comunque vada sarà la volontà di dio.
Riguardo la foto dei ragazzini: quello davanti tutto impettito è quello che raccontava orgoglioso di essere il più grande ladro di Persia, o qualcosa del genere, e di aver rubato anche 500 pecore al giorno. Quello con la bambola parla con la bambola solo in curdo e le racconta cose che non racconta a nessun altro. Tutti i ragazzini hanno un bambolotto, ho pensato che probabilmente faceva parte del programma del riformatorio. Li guardo i ragazzini, e anche se non ricordo precisamente tutte le loro storie, in quei 55 minuti mi ci sono affezionata, come può succedere con i bambini. Nonostante tutto rimangono quello che sono, bambini.
Mehrdad Oskouei ha una quarantina d'anni e parla persiano. E' un uomo molto comunicativo, forse per quello, penso, è riuscito in così pochi giorni a far parlare i bambini del riformatorio alla sua telecamera. Ha un'aria gentile e serena, confortante, ed è riuscito secondo me a rappresentare una realtà così tremenda, con leggerezza, la leggerezza che è dei bambini. Lo dice lui, rispondendo a una delle tante domande del pubblico: i bambini rimangono bambini. La sezione del riformatorio che ospita i ragazzi dai 15 ai 18 anni, dice, è già tutta un'altra storia.
Sul NYT un articolo e intervista su Mehrdad Oskouei.


















20.30. Blue line, finalmente il film per cui io e Tsaramaso siamo venute. E' un altro cortometraggio di 20 minuti e racconta la storia di una mucca libanese che un bel giorno attraversa la linea blu, cioè il confine tra il Libano e il territorio (che sarebbe sempre Libano, se non ricordo male) controllato dall'esercito israeliano, innescando seri problemi diplomatici tra le forze dell'ONU indiane e i soldati israeliani.
Alain Sauma, il regista, è un uomo di poche parole - discreto in tutti i sensi, penso -  viene dalla pubblicità e si vede. Il film è prodotto interamente in Francia e anche girato lì, quindi penso che Alain Sauma che parla perfettamente francese (come del resto moltissimi libanesi) sia un libanese residente all'estero, di quelli che se ne sono andati (comprensibilmente) e che gli artisti invece rimasti di solito guardano con un certo disprezzo - facile andarsene, dicono, facile fare gli artisti in Francia, in USA... Invece no, controllo, e Alain Sauma abita a Beirut. Ecco, alla faccia dei pregiudizi.
Blue Line naturalmente è un film un po' surreale, anche se Sauma racconta che è una cosa che succede spesso, quella di animali che attraversano il confine e vengono purtroppo ammazzati. La storia di Blue Line è di Lynn Maalouf, giornalista e moglie di Sauma.
Non è per niente surreale, o forse lo è fin troppo, il film successivo - ma presentato insieme a Blue Line e che dato l'argomento facilmente monopolizza tutta la discussione prima e dopo i due film, a discapito quindi del discreto libanese, che comunque è di poche parole.
5 Broken Cameras è un lungometraggio firmato da due registi, uno palestinese Emad Burnat e uno israeliano Guy Davidi (a presentarlo c'è solo quest'ultimo), che tra le altre cose è stato selezionato per il Sundance Festival e ha vinto vari premi, tra cui un paio a un festival di Amsterdam. Le cinque telecamere rotte sono quelle di Emad Burnat, distrutte negli anni in cui riprende le manifestazioni della popolazione palestinese di un piccolo villaggio, Bil'in, che cerca di impedire l'insediamento di nuovi coloni israeliani e che sottrae campi di ulivi delle famiglie palestinesi. Le famiglie palestinesi inoltre protestano contro la costruzione di un'inferriata che li separa dai loro stessi campi. Emad Burnat, che non è un cameraman professionista, ma che sul campo lo diventa alla grande, riprende giorno dopo giorno le violenze e così assistiamo come in presa diretta a numerosi ferimenti anche gravi, tra cui anche di Burnat, e ad alcune morti. Alla fine l'inferriata viene demolita, e i manifestanti sembrano aver vinto; ma in realtà è in arrivo il bel muro di cemento.
Quello che differenzia 5 broken cameras da altri documentari sulla situazione palestinese nei territori occupati, è il taglio personale: la vicenda la seguiamo attraverso Emad Burnat e la sua famiglia; ed è stato proprio l'aspetto famigliare a interessare il regista Davidi.
La discussione dopo è molto delicata e i primi interventi sono polemici e contro l'occupazione israeliana. Tanto per essere chiari io sono totalmente di parte e Davidi per quanto abbia messo la sua firma su un film che mostra i sopprusi degli israeliani sui palestinesi e immagino lavori per una conciliazione, e ben vengano i Davidi, non mi stava simpatico e a un certo punto ha fatto un discorso sul non mettere Israele in un angolo perché peggiorava la situazione, e mi ha fatto ridere, perché se Israele si sente messo in un angolo, la striscia di Gaza cos'è? E' un professore dell'Università di Modena di sociologia dei processi culturali, Vittorio Iervese, che modera la discussione ed è bravissimo a riportare il discorso sui film, senza alzar la voce invita il filopalestine esagitato a tornare il giorno dopo quando ci sarà una tavola rotonda incentrata precisamente su questa questione e riesce ad estrapolare da uno spettatore arabo che parla prima in arabo, poi francese, e poi inglese la domanda da fare a Davidi, che poi è senza risposta: ci sono degli israeliani in sala e come commentano questo documentario? Anche Vittorio Iervase è un po' un mio nuovo mito.

















In conclusione, penso che mi sono proprio divertita a passare un pomeriggio e una serata tra fotografie e cinema del Medioriente, e conto l'anno prossimo di passarci più tempo. Tutto quello che ho visto mi è piaciuto, qualcosa di più qualcosa di meno: di solito preferisco la finzione anche per raccontare la realtà rispetto ai documentari, quindi i due corti mi sono piaciuti di più. Ho trovato molto poetico e delicato il documentario sui bambini iraniani di The last days of winter; mentre forse 5 Broken Cameras è quello che mi è piaciuto meno nonostante sia davvero ben fatto - spesso sul conflitto israeliano palestinese si vedono delle cose fatte veramente male ma che per la giusta causa vengono mostrati come bei documentari. Per le due mostre fotografiche vale ancora la mia inclinazione per la finzione, quindi più Tavakolian; ma anche Kate Brooks mi ha proprio incuriosito.

Alla fine, insomma: viva le donne!

14.4.12

Prima durante e dopo


L'intenzione era fare della patatine fatte in casa gialle e rosse, con le patate e le barbe rosse.
L'intenzione poi era fare una salsina a base di yogurt piena di spezie.
Il risultato è stato delle patate e delle barbe rosse tagliate fini arrosto.
Buone eh!
Credo che per fare delle patatine, cioè un minimo croccanti, serva uno strumento per tagliare ancora più fini le verdure, io l'ho fatte col coltello, e un forno migliore.
O forse cuocerle per più tempo a temperatura molto bassa.
O più semplicemente, friggerle.
La salsina invece se l'è portata via la pigrizia.

12.4.12

Il porto di marina
































Con la olympus, che capisco.
Con la diana invece ancora non c'è intesa, almeno col bianco e nero. Non credo ancora di aver capito il senso. Ma ci arriverò.
Magari nel frattempo faremo una tregua colorata, io e la diana.

11.4.12

La famosa scusa del canguro


La nostra preziosa inviata da Melbourne ci segnala questo interessante articolo apparso sul giornale online The Age proprio oggi - ma li sono nove ore avanti.
Un giovane postino della ditta Australia Post è stato filmato mentre col suo motorino da postino corredato di borsoni da postino laterali gialli fosforescenti, casco e giaccone giallo fosforescente da postino, saltava su una piccola rampa in legno sistemata in mezzo alla strada.
Purtroppo il salto non è andato come sperato, e il motorino una volta decollato è atterrato sulla ruota anteriore. Nel video presente al link insieme all'articolo, l'atterraggio è nascosto da un auto parcheggiata, ma si sentono le esclamazioni.
Pare che questo postino, ventenne, fosse conosciuto nel quartiere per la sua guida sportiva e acrobatica, di cui dava sfoggio durante il giro di consegna. Infatti, la piccola rampa in legno è stata costruita soltanto il giorno prima da uno degli abitanti del quartiere, presente durante una delle sue acrobazie. E' stato proprio il postino acrobata a dire al gruppetto di abitanti che lo stavano ammirando che se gli avessero costruito una rampa lui l'avrebbe saltata.
E così è stato.
Il mattino dopo il postino ha trovato sulla sua strada la rampa.
Ma il risultato non è stato quello previsto.
Una volta rientrato alla base con il motorino tutto ammaccato, pare che il postino per giustificarsi col capo gli abbia detto di essersi scontrato con un canguro. La verità il direttore della filiale di Australia Post l'ha saputo solo dai giornalisti venuti ad intervistarlo.
A quel punto per il postino acrobata non c'è stato più niente da fare: si è dovuto dimettere.

10.4.12

Pollo alle prugne



Di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud.

Se pensi Marjane Satrapi pensi Persepolis.
Se pensi Persepolis pensi wow.
Se pensi wow pensi wow soprattutto per il fumetto o graphic novel che dirsivoglia (che bella parola dirsivoglia, ma è una parola o sono tre?).
Se pensi fumetto o graphic novel che dirsivoglia eccetera eccetera puoi pensare anche Pollo alle prugne.
Ma io Pollo alle prugne non l'ho letto mentre Persepolis sì, e pensai capolavoro.
Se pensi capolavoro non pensi Polla alle prugne, nel senso del film.
Il fumetto non lo so, ma da voci di corridoio non penso sia un capolavoro nel senso di Persepolis.
Se pensi Persepolis nel senso del film pensi film d'animazione.
Se pensi Pollo alle prugne nel senso del film non pensi film d'animazione.
Non lo pensi nel senso stretto del termine, perché poi i personaggi sembrano fumetti anche se sono attori in carne ed ossa, la storia è una favola, e le immagini sono molto costruite. Insomma, in confronto, Persepolis sembrava un film di Roberto Rossellini del neorealismo. Giuro.
Se pensi Rossellini pensa invece alla figlia, Isabella, perché fa uno di quei personaggi che sembrano fumetti in Pollo alle prugne. Bella e fantastica come sempre. Poi c'è anche la moglie di Bruce Willis in Pulp Fiction, quella che bontà sua si dimenticava l'orologio.
Se pensi personaggi che sembrano fumetti pensi al Favoloso mondo di Amelie, perché a personaggi e a fotografia lo ricorda molto. E lo pensi anche perché c'è Jamel Debbouze che ne fa due di personaggi.
Se insisti a pensare al pollo alle prugne (nonostante uno sia vegetariano) pensi cinque minuti forse meno del film e tanto ve lo dico subito, non lo mangia il pollo alle prugne.
Se pensi Pollo alle prugne nel senso del film, non pensi proprio Persepolis.
Io mi ci sono anche un po' annoiata che a me al cinema di annoiarmi succede molto di rado.

6.4.12

Beirut I love you

Beirut nel 2009

Ovvero, piccola guida per scoprire una città, che nonostante innumerevoli tentativi, non muore mai.

1. Lo scorso fine settimana il bel programma di quella bella radio che è radio3, File Urbani, si è occupata proprio di Beirut, in 2 puntate di mezzora il sabato e la domenica: molta musica e tanta informazione sulla scena cittadina contemporanea. Qui potete riascoltare il podcast.

2. Il titolo di questo post è tratto da un telefilm libanese che si guarda online, in arabo con i sottotitoli in inglese. Ogni puntata dura 6 minuti. Penso che ne diventerò dipendente.

3. Nadine Labaki è regista e attrice. Qualche anno fa uscì con Caramel, una commedia che ruotava tutta intorno a tre amiche che lavoravano in un negozio di parrucchiera; mentre quest'anno è da poco passato nelle sale E ora dove andiamo?. Un po' musical, un po' commedia, un po' dramma, è la storia di un villaggio libanese dove attraverso varie fantasiose strategie riescono a mantenere la pace tra la popolazione cristiana e quella musulmana. Bellissima la prima scena in cui un gruppo di donne vestite di nero ballando e cantando si avvicinano alle tombe dei loro cari. Mi ha ricordato la coreografia finale nel documentario su Pina Bausch.

4. Gabriele Basilico. Fotografo milanese che ha fatto tutta una serie di foto su Beirut negli anni novanta. Sono particolarmente affezionata a Basilico perché sono convinta che tale Basilico sia arrivato a Beirut in motocicletta quando noi abitavamo là, cioè negli anni 78-81, e fece due ritratti a matita a me e mia sorella. Quello a mia sorella non venne tanto bene, le fece la faccia un po' troppo paffutella, mentre il mio ci piacque e per tanto tempo è rimasto appeso sopra la nostra scrivania in camera a letto. Ho fatto varie ricerche online per capire se poteva effettivamente essere lui o se la memoria si stava prendendo gioco di me, ma non sono arrivata a nulla. Addirittura credevo di avergli scritto un'email a tale gabriele basilico fotografo con un sito internet preciso preciso, per poi scoprire guardando meglio che, uno, quelle non potevano essere le foto del mio Gabriele Basilico, e che, due, quel gabriele basilico a cui avevo scritto era nato nel 1978. Comunque non mi ha mai risposto. Quindi se il vero Gabriele Basilico legge questo blog, che per favore mi dica se era venuto a Beirut negli anni 78-81.
Gabriele Basilico, quello che forse mi fece il ritratto da piccola, non ha un sito web, quindi una galleria di sue foto non esiste, ma basta googlearlo e se ne trovano. Io ho scelto questa. Gabriele Basilico poi non ha fotografato solo Beirut, ma anche altre città.

5. E per finire una ricetta: mujaddara. Lessare separatamente le lenticchie, facendo attenzione che non diventino sfatte; e il riso, secondo me ci sta bene il basmati. Scolare sia riso che lenticchie e mescolare insieme. In una padella friggere la cipolla tagliata finemente a rondelline; è la parte più difficile perché le rondelline di cipolle devono dorarsi e diventare croccanti senza bruciarsi. Aggiungere le cipolle al riso e lenticchie, mescolare e lasciare riposare un po' in modo che i sapori si mescolino. Qui accompagnano il piatto con una salsina di yogurt fatta con cannella, cumino, coriandolo, paprika, menta e succo e scorza di limone, che non mi sembra malaccio affatto. Yum!

3.4.12

E dopo basta

Chiedetemi: mi hanno fatto domande su uno degli autori con cui ho riempito il blog nell'ultimo mese e più?
No.
Neanche Francis Bacon mi hanno chiesto, di cui ho scoperto questo ritratto di George Dyer in bicicletta. George Dyer fu il compagno di Bacon, morto suicida il giorno dell'inaugurazione di una personale di Bacon a Parigi negli anni '70. Persona molto problematica, depressa e alcolizzata, Bacon racconta di averlo conosciuto quando lo aveva beccato in casa mentre stava cercando di derubarlo.
Bacon è contemporaneo di Rothko, ci sono 4 o 5 anni di differenza tra i due, e la loro pittura è molto diversa. Anni fa decisi che Rothko non mi piaceva quando vidi un'intervista a Bacon in cui diceva che quando era un po' giù e voleva deprimersi completamente entrava nella stanza di Rothko alla Tate Modern. Nel frattempo su Rothko ho cambiato idea; ma Bacon rimane il mio preferito.